Tra gli ospiti: Venanzio Postiglione

Sull’evento:
Tratto dal Corriere della Sera

Un’immagine che è un pezzo di storia di Milano. Quindi d’Italia. È una foto del 1968, la scattò Uliano Lucas: davanti alla stazione Centrale. Sullo sfondo il grattacielo Pirelli di Gio Ponti, cioè lo specchio del boom economico, e in primo piano l’emigrante dal nostro Sud con la valigia di cartone e il cappotto troppo largo. Il grattacielo dei sogni e i sogni dell’emigrante. Due mondi che potevano confliggere e distruggersi, senza mai capirsi, in un vortice di rabbia, come immaginava Luciano Bianciardi nella “Vita agra”, oppure (faticosamente) integrarsi e andare avanti. Farcela. Come è successo. Come è successo a Milano.
Sono passati 56 anni, il Pirellone è qui a pochi metri: non è il più alto come allora, ma resta un prodigio. Tutt’attorno a noi i nuovi grattacieli e questo parco, la Biblioteca degli alberi, con la sua unicità: è sempre aperto, senza recinzioni e senza orari. Il vero bipolarismo non è politico ma è sempre culturale: è chiusura/apertura. La faglia del nostro tempo e forse di ogni tempo. La paura, il ponte levatoio che è dentro di noi. Oppure la fiducia, la voglia di andare avanti e di provarci, con tutti i rischi del caso.

C’è bisogno di dirlo? Milano è “apertura” o non è più nulla. Milano “chiusa” al mondo svanirebbe, come nell’incantesimo di una favola. Quanto pesano un milione e 300 mila abitanti nell’epoca delle megalopoli? Poco, pochissimo. Quanto pesa una città che inventa il futuro con il design, la moda, otto atenei e 220 mila studenti universitari? Molto, moltissimo. Quanto conterà Milano se nel giro di pochi anni si trasformerà in una città “per benestanti di una certa età” perché si rivelerà troppo cara, perché diventerà esclusiva, una metropoli-Netflix, con i contenuti “premium”? Poco, pochissimo. E quanto conterà Milano se, invece, riprenderà il filo della città inclusiva, della città delle opportunità, della città dove stanno bene in tanti e non in pochi, della città che accoglie le ragazze e i ragazzi più bravi d’Italia? Molto, moltissimo. Siamo al famoso punto di svolta. Cosa vogliamo (e possiamo) diventare.
Il respiro di Milano viene da lontano. Da un periodo che va dagli anni ‘60 agli anni ’80 dell’Ottocento. Non vi spaventate. Nel 1863 viene alla luce il Politecnico. Nel 1865 Ferdinando e Luigi Bocconi aprono il primo negozio che vende abiti già confezionati. Nel 1876 nasce il Corriere della Sera, che annuncia “fatti e chiarezza” e cambia la storia dell’editoria. Lo stesso anno si inaugura la tranvia a cavalli, un servizio Milano-Monza, con le rotaie di scorrimento.  Sempre nel 1876, che anno pazzesco, l’ingegner Giuseppe Colombo apre la prima centrale elettrica d’Europa, in via Santa Radegonda, dietro al Duomo. Nel 1877 Enrico Forlanini, ai giardini di Porta Venezia, fa volare una strana macchina con due eliche. E a San Silvestro, per gli auguri, il sindaco di Milano parla con il sindaco di Gallarate e Varese, la prima telefonata in Italia. Tutto è pronto per l’evento che segna l’inizio dell’epoca industriale: l’Expo del 1881. Con 7.000 espositori da tutto il Paese, un milione di visitatori, marchi che si presentano al mondo: Pirelli, Ansaldo, Branca, Campari, Cinzano, anche il pandoro Melegatti. L’innovazione.
Quell’anno, quel momento, è la seconda nascita di Milano: il cuore di nebbia che Stendhal amava per i navigli e i giardini, diventa il luogo del futuro. Questo o nulla: appunto. Il secolo si chiude con la frase, famosa, di Gaetano Salvemini, 1899: “Quel che oggi pensa Milano domani lo penserà l’Italia”. E allora “La città che sale” di Umberto Boccioni, 1910, appare come la raffigurazione poetica di un codice genetico, una specie di manifesto metropolitano. Il quadro è esposto al Moma, a New York, nello stesso museo che ospita i pezzi pregiati del design, della creatività italiana, non può essere un caso. Quale città sarebbe stata capace di ricostruire la Scala in un anno, dodici mesi? “La città è morta, è morta”, aveva scritto Salvatore Quasimodo, dopo le bombe e le lacrime. Solo che un sindaco socialista, Antonio Greppi, si arrampica sulle macerie, chiede “fatica e cuore”, promette “pane e musica”. L’11 maggio del ’46 Toscanini riapre la Scala, c’è una folla che piange e si tiene per mano.
Milano è la fabbrica delle fabbriche per 40 anni. Il boom e la fatica. La ricchezza e l’integrazione difficile, a volta disperata. Lo racconta meglio di tutti Luchino Visconti, “Rocco e i suoi fratelli”, 1960, in pochi minuti di sequenza iniziale che valgono più di un trattato di sociologia. L’arrivo della famiglia lucana alla stazione Centrale, gigantesca, piena di gente, che Anna Maria Ortese definiva “il mare di Milano”, e soprattutto lo stupore urlato, fanciullesco, sul tram che di notte taglia la città e passa davanti ad Alemagna. “Guarda che vetrine! Che luce! Sembra giorno!”. Miracoli del cinema. L’insegna di Alemagna, che piaceva da impazzire a mia mamma Anna, non esiste più: ma Milano è ancora lì, sul filo, in viaggio sul vecchio tram Carrelli 1928, sospesa tra la soddisfazione di chi ce l’ha fatta e la meraviglia (impaurita) di chi rischia di non farcela, in bilico tra il grattacielo qui a Porta Nuova dove vivono i calciatori e il posto letto a 700 euro per lo studente fuori sede che non sa come mantenersi.
Solo una città che si reinventa, ogni volta, e respira, ogni volta, poteva passare indenne dalla chiusura delle industrie alla nascita del terziario. Ci sono metropoli devastate per molto meno. L’università Bicocca dove c’era la fabbrica della Pirelli dà l’idea di un cambio d’epoca: quando me ne parlò il sociologo Guido Martinotti, più di 30 anni fa, mi sembrò più un pazzo che un visionario. Eppure i cambiamenti sono rapidi. La città che diventa famosa come “Milano da bere” nel 1985 si ritrova Tangentopoli nel 1992: possibile? Tutti felici sette anni prima e quasi tutti banditi sette anni dopo? Poi è arrivata la ripresa, come sempre. I successi del made in Italy, il design che ci porta qui mezzo mondo, l’Expo 2015 come consacrazione della città aperta, dinamica, veloce, internazionale. Un’Expo, ancora una volta, ha segnato il punto di rottura e il nuovo inizio.
E adesso? Adesso? Come sta Milano? Diciamo che non ha perso la fiducia, ma un po’ di sicurezza. Ecco: si sente “insicura”, per trovare una sintesi. Insicura in un’accezione diversa e anche più alta. Non perché ha paura della criminalità e si vuole chiudere in casa, ma perché non vede i traguardi, non vede i prossimi anni. Non è l’insicurezza per strada, quotidiana, è l’insicurezza del futuro. È l’equilibrio tra l’immagine della città scintillante, che va preservata, e l’aspirazione, anzi la necessità, della città inclusiva, che va ritrovata e ricucita. Difficile? Difficile, certo.
Ma parlare di sicurezza in modo scontato e prevedibile diventa ossessivo, anche fuorviante. È cambiata la percezione? Sì. I reati di strada sono insopportabili? Certo. Bisogna lavorarci e avere più agenti? Verissimo. Ma quando Giorgio Scerbanenco scrisse “I milanesi ammazzano al sabato”, 1969, c’erano più di cento omicidi all’anno, la mala spadroneggiava e stava pure arrivando il terrorismo. Nel 1999 i delitti in città sono stati più di 30 e ce ne furono nove in nove giorni. L’anno scorso otto. Quest’anno… uno. Ancora troppo, ma uno solo. La metà dei gialli italiani è ambientata a Milano, ma ci vuole sempre più fantasia. E allora, e mi ripeto, l’insicurezza non è legata alla sicurezza: è un malessere da sospensione. Una crisi di crescita: sto abbastanza bene ma vorrei e potrei stare meglio.
Il respiro di Milano è il cambiamento. Che oggi più che mai vuol dire ecologia, digitale, cultura, innovazione, vuol dire la ricchezza e la passione di 180 mila volontari, 180 mila, il segno che la coesione sociale è possibile, è già tra di noi. Quando Calvino scrisse le “Lezioni americane” immaginò un mondo guidato da due divinità, Vulcano, il saper fare, cioè faticare e creare, e Mercurio, la comunicazione e la rapidità, con le ali ai piedi. Sotto il segno della leggerezza, dice Calvino. Ecco. Una città leggera: il vero punto di forza, visto che la società si trasforma ogni anno, ogni mese. Una città che se lo dimentica ma in realtà sa pure volare, come nell’ultima scena di “Miracolo a Milano”, inventata da Zavattini e De Sica. Una scena così geniale e struggente che ha ispirato l’idea dei ragazzini sulle bici volanti di “E.T.”, un film abbastanza noto di Steven Spielberg.
Leggera, come suggeriva Calvino, e accogliente, come è nel suo dna e come in parte non è più. Il primo passo? Fosse per me, darei un corpo ai fantasmi. E oggi i fantasmi sono gli studenti universitari, che sono una città nella città, grande come Brescia. Proverei a capire come vedono Milano di oggi e di domani, cosa pensano dei parchi e degli autobus, sono sicuro che ci darebbero qualche buona idea. Ascolterai quando dicono che è “troppo cara”, senza rispondere che sono così anche Londra e Parigi e New York, perché loro sono qui e vogliono vivere qui, non a Londra o a Parigi o a New York. “Milano è sempre una bella vigilia di ciò che potrebbe accadere”, ha detto Ermanno Olmi. Ma se i prezzi delle case sono impossibili e il meccanismo si inceppa, non troveremo più chi viene a studiare ma neppure chi viene a insegnare, a guidare i tram e a curare i malati. “Il frutto non è garantito e non è immediato, ma se non si semina è certo che non ci sarà raccolto”: la frase, bellissima, è del cardinal Martini. Abbiamo bisogno di seminatori: soprattutto oggi e soprattutto qui. Per convincere i giovani a venire e per convincere i meno giovani a restare, dopo una vita trascorsa nella città che amano. Quando chiesero ad Alda Merini dove voleva passare gli ultimi anni, rispose: “È bellissimo tornare a Milano, di notte. Si potrebbe lasciarla per sempre solo per andare in paradiso. Ma forse desidererei, anche da lì, la mia casa”.
La forza di Fuoricinema è che vive a Milano, per Milano, in simbiosi con Milano. La bellezza è che qui si respirano la “varietà” e la “diversità”, che sono l’anima della città e sono anche lontanissime dall’elogio della “normalità” che ci propone un generale diventato molto famoso. Millenni di civiltà per aspirare ad essere normali: la vita è bizzarra.
Il cinema è fatto di sogni e “le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure”, per citare ancora Calvino. Il primo novembre del ’64 si inaugurava la linea 1 del metrò. E il Corriere, alla vigilia, chiese un pezzo nientemeno che a Dino Buzzati, che bei tempi. Ne nacque un racconto strepitoso, dove si perde il confine tra realtà e fantasia. Con un finale profetico, sentimentale: “Nuova favola di Milano, il sospirato viaggio comincerà”. Sono passati 60 anni esatti, ora il metrò ci porta fino a Linate, siamo sempre in cammino e cerchiamo il nostro traguardo.

Buon viaggio, Milano!